Il cielo dentro di noi

Il cielo dentro di noi

Generazioni

Generazioni Scritti a cura di Fausto Corsetti; Foto a cura Mazzotta Massimo Esiste una simmetria inversa tra gioventù e vecchiaia: i giovani hanno poco passato alle spalle e tanto futuro davanti. Ai giovani si schiudono le speranze, ai vecchi non restano che i ricordi. In quelli l’avvenire si apre al possibile e, nell’immaginazione, si popola di aspettative e desideri; in questi il passato sovrasta le altre dimensioni del tempo, mentre il presente scivola, inesorabilmente e con moto accelerato, verso un futuro prossimo in cui il mondo proseguirà senza di loro.Nella tradizionale divisione della vita umana in giovinezza, maturità e vecchiaia, la preferenza è data, di norma, alla maturità. Sovente la giovinezza è ritenuta per lo più acerba, inesperta, incostante e impetuosa. Mentre la vecchiaia è spesso triste, risentita, timorosa e debole. La prima trascorre velocemente, avanza a lunghe falcate, la seconda si sposta, anche fisicamente, “al rallentatore”, a passo strascicato.I vecchi, forse, amano la vita tanto più in quanto sono al tramonto, poiché il loro desiderio riguarda un bene che ormai non c’è più, e si desidera soprattutto ciò di cui si è privi. Eppure, rispetto alle generazioni di un tempo non lontano, l’amore per l’irrecuperabile vita trascorsa sembra oggi attenuarsi. In un mondo che muta velocemente, al vecchio riesce più difficile tenere il passo con i tempi, e ciò aumenta in lui il senso di disorientamento, di smarrimento, di perdita di contatto con la realtà.In molti, proprio nei più sensibili e avveduti, il bilancio della propria esistenza tende a lasciare un più lungo strascico di rimpianto e di amarezza, perché si rendono pienamente conto dell’impossibilità di raggiungere gli obiettivi che si erano prefissi.Nella constatazione che ogni progetto di vita è costitutivamente insaturo, inconcluso e irrealizzabile, la morte appare loro, di conseguenza, ancora più insensata.Si fa così strada l’acuta consapevolezza che siamo tutti “dilettanti della vita”, che le cose più importanti non si imparano, perché non vi è un metodo sicuro per giungere ad apprenderle, e non si possono, a loro volta, insegnare. Oppure si imparano quando è troppo tardi e quando non serve più averle apprese.Tutto sarebbe certo più bello se noi sapessimo in anticipo, da giovani, quali sono le strade che avremmo dovuto intraprendere e se potessimo, da vecchi, ricominciare la nostra esistenza con il sapere e l’esperienza raccolti nel cammino.In molti Paesi del mondo, la popolazione è formata da una moltitudine di “anziani” che hanno perduto il prestigio in precedenza dato dall’età (e che vengono, in alcuni casi, addirittura percepiti come socialmente superflui): così la vecchiaia si rivela spesso un’asettica anticamera della morte.In prospettiva, la “solitudine del morente” – in una clinica o in un ospizio, non più circondato dai famigliari, dagli amici o dalla comunità di vicinato – rende la vecchiaia ancora più tragica.Se l’avvenire è sbarrato, al vecchio resta tuttavia il passato, con il suo tesoro di ricordi cui attingere.Essi rappresentano la sua maggiore fonte di gioia e di senso, il “puzzle” solo in parte ricostruibile della sua identità. E questo, anche se, nel guardare indietro, egli sarà colto dalla vertigine di essere restato intimamente lo stesso, malgrado abbia attraversato una serie di metamorfosi nel corpo, nei pensieri e nei sentimenti, che hanno cancellato o sovrapposto tante versioni di sé. Nel ripercorrerne le tappe, la sua vita gli apparirà forse come quella di un estraneo o di un personaggio di un romanzo letto tanto tempo fa. Si chiederà, spaesato, come abbiano potuto sprofondare nel nulla tutte le persone che ha conosciuto, assieme ai sistemi politici, ai modelli culturali e agli eventi che lo hanno accompagnato nel corso della sua esistenza. Sarà allora colto da un sentimento d’irrealtà e di incredulità al pensiero di aver vissuto al tempo di Aldo Moro e di Enrico Berlinguer, delle Brigate Rosse, della prima trasmissione televisiva RAI, del primo trapianto di cuore o dello sbarco dell’uomo sulla Luna…Il rimedio lo troverà nell’ancorarsi alla memoria, nel chiedere la sua testimonianza, il solo segno, per lui e per gli altri, di essere realmente esistito.Ma occorre affrettarsi, concentrarsi e non dissipare il poco tempo che rimane. Nel ripercorrere il cammino saranno di aiuto i ricordi. Ma i ricordi non affiorano se non si va a scovarli negli angoli più remoti della memoria…Nella rimembranza ritrova se stesso, la sua identità, nonostante i molti anni trascorsi, le mille vicende vissute.Trova gli anni perduti nel tempo, i giochi di quando era ragazzo, la voce, i gesti dei suoi compagni di scuola, i luoghi, soprattutto quelli dell’infanzia, i più lontani nel tempo ma i più nitidi nella memoria… Trova i giorni dell’affetto, delle tenerezze, del calore delle feste: figli, nipoti, parenti, amici, tutti riuniti a stare insieme, a fare cose insieme; e i pomeriggi passati con la moglie (o con il marito), magari anche solo a passeggiare, a vedere vetrine. Spesso accanto, ora, non c’è che indifferenza, assenza, fretta, sopportazione. Gli amici sono spariti.Non è difficile pensare che la cosa più triste della vecchiaia sia la solitudine o forse il senso dell’abbandono. Sì, l’abbandono ancora più della solitudine, perché l’abbandono è vissuto come una dolorosissima ingiustizia. Perché è vero che spesso gli anziani non sono divertenti, ma quasi sempre lo sono stati. Sono stati divertenti, importanti per qualcuno, o forse per tanti; sono stati attivi, dinamici, moderni, spiritosi; sono state querce dai rami sicuri, hanno amato, sono stati amati, desiderati, stimati. Sovente hanno perso tutto questo, ma credevano di avere la garanzia degli affetti più cari e invece, talvolta, perdono anche questi.La profonda ingiustizia consiste nel decretare la morte dei sentimenti prima della morte biologica.Chi pronuncia questa sentenza non sempre si rende conto del dramma che provoca. Talvolta ci sono anziani che passano la giornata a spiare se figli o nipoti – che magari abitano un piano di sopra o sotto della stessa casa – si affaccino al balcone o diano qualche segno di interesse. E poi chiudono malinconicamente la finestra della speranza.Affrettarsi…occorre affrettarsi. Il vecchio vive di ricordi e per i ricordi, e la tremula fiammella della memoria si affievolisce, flette, langue. Di giorno in giorno.

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Questione di Libri

Questione di Libri Scritti a cura di Fausto Corsetti; Foto a cura Mazzotta Massimo Siete mai entrati nella casa di una persona che non conoscete, ma della quale vorreste capire qualcosa? Se in questo appartamento ci sono dei libri ecco il dettaglio, muto, che vi urlerà parecchio sulla personalità di chi vi apprestate a incontrare.Una biblioteca rispecchia, infatti, la personalità del suo padrone; fa capire i suoi gusti, le sue tendenze, la sua cultura, la sua incultura, i suoi tic e i suoi hobby. Non esiste arredamento più caldo e avvolgente di una lunga libreria, non esiste casa più fredda di una senza. Insomma, i libri fanno parte dell’arredamento e ci rappresentano più di un vestito, di un accessorio. Quanto l’educazione di un figlio.Libri, libri, libri, chi li ama, chi li ignora, chi li colleziona, chi li tiene sul tavolo, in bella evidenza, talvolta solo per far mostra. Questo ultimo tipo è il più pericoloso, ma anche il più individuabile, perché essendo un orecchiante, terrà sul tavolo del salotto spesso qualcosa d’effetto, raramente qualcosa che ha letto. “Ciò di cui abbiamo bisogno sono quei libri che ci piombano addosso come la sfortuna, che ci perturbano profondamente come la morte di qualcuno che amiamo più di noi stessi, come un suicidio. Un libro deve essere un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi.”Ecco una fulminante affermazione tratta. Da una lettera a Oskar Pollak di Franz Kafka.Vero è che un’onda cartacea sommerge un pubblico che paradossalmente sembra allontanarsi sempre più dalla lettura. La ragione ultima di questa disaffezione, al di là di molte altre motivazioni rilevanti, è forse proprio nel monito di Kafka.Le pagine sono sempre più costellate di banalità, di approssimazione, di superficialità.Ormai la parola è svalutata dal chiacchiericcio politico e pseudo culturale, sovente volgare e vacuo presente nelle televisioni, nelle radio, nei “social” e nei più moderni contesti della comunicazione. Octavio Paz, scrittore messicano, premio Nobel per la letteratura nel 1990, affermava che una civiltà inizia a corrompersi quando si corrompe il suo linguaggio. D’altro canto, la parola è la spia più nitida della capacità o meno di comunicare. Se essa si inceppa o si imbarbarisce è perché la coscienza è vuota, la mente offuscata, lo spirito indifferente, la vita ingrigita. È triste ascoltare negli uffici, negli autobus, sui treni, nelle scuole, quella cascata di parole volgari, banali, ripetitive, ricalcate sulla stupidità o sui luoghi comuni dei personaggi televisivi, pubblicitari o, comunque, dello spettacolo.Anche il libro risente pesantemente di questo impoverimento e le sue righe, sovente disinvoltamente mal scritte, non fanno che rimasticare aria.Mai come oggi sembra valere il detto ironico dell’introduzione de I Promessi Sposi: “Di libri basta uno per volta, quando non è d’avanzo”.È proprio per questo che è necessario ritornare a quei pochi libri che inquietano la palude della coscienza, che spezzano le incrostazioni dell’esteriorità, che approdano al cuore e all’autenticità; che rigenerano e riqualificano la nostra vita, le nostre relazioni, le nostre convinzioni, così come proponeva Franz Kafka. Leggere è sempre cercare di interpretare e di interrogare. In disparte dalle attività e dai ritmi abitudinari, possiamo dimenticare ciò che è presente ai nostri sensi e fissare gli occhi e l’attenzione sullo “sta scritto” fino a uscire quasi da noi stessi (o, meglio, a scendere nelle nostre profondità…): il lettore diviene, anche per chi lo osserva, una icona di interiorità, un’immagine di raccoglimento, un’allusione al viaggio della mente.La lettura, di fatto, è una conversazione, un dialogo con chi è assente e può essere lontano mille miglia nel tempo e nello spazio: è un ricevere la parola di un altro e farla propria, interpretandola nel dialogo della propria intimità.Sant’Agostino paragonava la scrittura a uno specchio che rivela il lettore a sé stesso. Gregorio Magno parlava della “scrittura che cresce assieme al lettore” e Marcel Proust era convinto che la sua opera monumentale Alla ricerca del tempo perduto non fosse altro che “lo strumento grazie al quale offrire ai lettori il modo di leggere in sé stessi”. Sì, anche e soprattutto nella nostra società dell’immagine, leggere resta operazione di grande umanizzazione, sorprendente nella sua semplicità: non occorrono tecnologie né complicate strumentazioni e nemmeno iniziazioni particolari perché, in fondo, come ricordava il poeta Fernando Pessoa, “l’unica prefazione di un’opera è il cervello di chi la legge”. Così la lettura, questo viaggio intrapreso con le parole dell’altro, diviene un cammino per ritornare al proprio cuore, un itinerario potenzialmente infinito.Purtroppo, la comunicazione contemporanea soggiace ad una legge spietata: quella dell’eccesso.Bisogna ampliare, dilatare sempre di più i prodotti: così il giallo lentamente degrada in violenza gratuita, l’erotismo in pornografia, la discussione in rissa, il dissenso in insulto, la critica in aggressione personale e così via.Lo scrittore Italo Calvino, nelle sue Lezioni americane, rammentava che il vero artista (ma anche l’uomo saggio) è colui che opera come lo scultore che sottrae e non aggiunge alla materia. Dal blocco di marmo elimina tutto ciò che è superfluo rispetto alla statua che è idealmente celata in quella pietra. Lo stesso concetto è espresso in modo più immediato da Daniello Bartoli, gesuita ferrarese vissuto nel Seicento, storico e grammatico, che nell’opera L’uomo di lettere difeso ed emendato afferma: “Non è il molto quel che si apprezza, è il buono. I libri sono come le anime, la cui grandezza non si misura dalla mole del corpo, ma dalla nobiltà degli spiriti”.Non è la grandezza che rileva ma l’interiorità; non è la quantità che dovrebbe imporsi, bensì la qualità; non sono i fronzoli ma la sostanza a tributare valore a una opera o a una persona; non è l’erudizione a dare insegnamenti ma l’avvedutezza che ispira e rischiara la via.Malgrado ciò, se siamo schietti, a farla da padrone ai nostri giorni è l’esagerazione: oggetto d’invidia è chi possiede tanto, chi prevarica con pensieri, parole, opere ed omissioni, chi grava e incombe con la sua immagine e il successo.Sarebbe, invece, doveroso ritrovare il gusto della riflessione, la finezza della discrezione, la dignità del contegno morale. Ne guadagneremmo tutti.

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Silenzi

Silenzi Di Fausto Corsetti Scritti a cura di Fausto Corsetti; Foto a cura Mazzotta Massimo Una dimensione che invita alla contemplazione e alla riflessione, rifugio accogliente e materno in una realtà sempre più frenetica, delirante e rumorosa: quiete densa di un’esperienza rigenerante e trasformativa.Il silenzio.Ai nostri giorni siamo inondati dalle parole, dalle chiacchiere, dal rumore, a tal segno che la comunicazione tra esseri umani è, talvolta, assimilabile ad una sorta di inquinamento acustico, problema ecologico e sanitario tra i più preoccupanti.Funamboli di ardite metafore, affabulatori, parolai imperversano, affascinano: una bella frase, il giusto tono di voce, una mimica vivace et voilà, il gioco è fatto.Quanta leggerezza, superficialità, esagerazione in giro! Nei giornali, alla radio, in televisione, nei piccoli schermi, lisciati e saltellati da dita impazienti, sembra quasi che la parola sia diventata uno strumento obbligato per l’affermazione e la celebrazione di se stessi.È, dunque, comprensibile che molti avvertano intensamente il bisogno del silenzio, vorrebbero cioè imparare a tacere per riscoprire il fascino del silenzio e, insieme, la bellezza di forme di comunicazione non verbali. Tacere equivale a digiunare verbalmente e il silenzio è paragonabile al digiuno fisico, entrambi salutari quando lo esigono il corpo e la mente.Il silenzio non è semplicemente assenza di rumore e di parola, ma è realtà assai più complessa.C’è un silenzio necessario in certi luoghi, e come tale imposto; c’è silenzio persino tra le note musicali…Accanto a questi silenzi funzionali, ve ne sono altri negativi o addirittura mortiferi: silenzi che “pesano”, che rendono inquieti e spaventano, silenzi opprimenti, abissi di silenzio! Di più, esistono silenzi complici e pieni di viltà, silenzi che dovrebbero essere spezzati dalla dignità e dal coraggio; silenzi che paralizzano la comunicazione, silenzi amari di solitudine sofferta.Ci sono, però, silenzi benefici, irrinunciabili.In primo luogo, il silenzio rispettoso della parola dell’altro, ma anche il silenzio scelto nella consapevolezza che “c’è un tempo per tacere e un tempo per parlare”.Un silenzio particolare è quello dell’amicizia e dell’amore, un silenzio di presenza e di pienezza, in cui il semplice stare insieme è fonte di gioia. In alcuni momenti, poi, l’unico modo per consolare un amico può essere soltanto tacere: le parole, a volte, sono insufficienti ad esprimere la profondità del nostro affetto e della nostra empatia. Un semplice abbraccio o un leggero tocco possono dire molto. Molto di più. Vi è infine il silenzio interiore, nel cuore di ciascuno di noi, per esplorare i nostri pensieri, le nostre emozioni in modo intimo e profondo. È occasione per trovare la nostra vera essenza, per connetterci con la nostra parte più autentica, per abbracciare la presenza dell’Altro, Infinito dentro di noi.Fare silenzio e apprendere la difficile arte di tenere a freno la nostra smania di parlare ci consentono, progressivamente, di far emergere nuove e inaspettate energie, che si traducono in un’attività intellettuale più feconda: nel silenzio diventiamo più ricettivi, sappiamo meglio ascoltare, osservare, odorare, toccare, anche gustare. Lunghe ore di silenzio ci rendono diversi, ci aiutano a guardare dentro di noi, a dimorare con noi stessi e, soprattutto, ad ascoltare ciò che ci abita in profondità. E così impariamo, a poco a poco, quanto siamo fragili ad accogliere la presenza degli altri e quali sono le ragioni autentiche per cui parliamo. Scopriamo cioè che le nostre parole sono spesso strumento di conquista e di seduzione, mezzi per permettere al nostro “io” di acquistare potere, successo, dominio sugli altri: parole aggressive e interessate, piegate a scopi inconfessati e inconfessabili, strumenti di manipolazione…Dunque, un’esortazione: impariamo a parlare attraverso la pratica consapevole del silenzio; vigiliamo affinché le nostre parole siano sempre fonte di dialogo e di conoscenza, di consolazione e di pace!Consolante e pacifica si adagia la quiete sulle distese verdi e gli alberi sono i custodi di questo dono prezioso. Non è soltanto silenzio fisico, ma atmosfera di calma, di serenità che avvolge, trattiene, incanta.È possibile ascoltarne il respiro, il canto, la voce silenziosa ma potente: ci parla di bellezza, di forza, di speranza. Il silenzio degli alberi è risorsa inestimabile che dobbiamo custodire e preservare, consapevoli che in essa possiamo trovare, o recuperare, misura, equilibrio ed armonia, per vivere in modo più rispettoso della natura e di noi stessi.